Questa è la parte 4 di 5 degli Appunti di Orientamento
UNA RISPOSTA POSSIBILE
La risposta che proponiamo a quest’ultimo interrogativo è che l’orientamento narrativo è un cammino privilegiato in quanto scioglie un contrasto apparentemente inconciliabile: quella di poter applicare un metodo uniforme a soggetti che vivono vite diverse, magari intrecciate, ma assolutamente specifiche e originali.
Questo può avvenire in quanto bisogna tener presente che il pensiero narrativo, che è una delle maniere in cui lavora il nostro cervello, rielabora ininterrottamente in forma di racconto le nostre esperienze e ci aiuta nella costruzione del concetto di sé, della nostra identità e nell’interpretazione della realtà.
L’insieme dei ricordi non è lineare ed il pensiero narrativo lavora in modo da rendere coerente il proprio racconto di sé dotandolo di logica e di significato. Dal momento in cui questa realtà si forma però non resta immobile. La memoria è dinamica e agisce sui nostri ricordi aggiornandoli con elementi del vissuto.
DENTRO L’ORIENTAMENTO NARRATIVO
Proviamo ad unire quanto detto sull’identità e sul perché raccontare.
Pensiamo che ogni storia che raccontiamo contenga, oltre che tutta una serie di informazioni chiare, anche delle conoscenze implicite, delle concezioni che abbiamo su di noi e sul mondo e dei quali daremo ampia visione nella seconda parte di questo volume.
Tutto questo materiale diventa estremamente prezioso nel momento in cui devo andare a rintracciare quelle informazioni che mi consentono di riscoprirmi; sono dei consuntivi, rappresentazioni ricche di emotività, di cose avvenute precedentmente, che suggestionano i nostri comportamenti ed i nostri gesti nei confronti del resto del mondo.
MA QUANDO CRESCI?
Quante volte ce l’hanno ripetuto e quante volte l’abbiamo detto? Una delle attese maggiori che hanno le persone che ci circondano è la nostra maturità, non intesa come diploma delle scuole medie superiori ma come “essere adulto”.
La realizzazione di un’identità di quel genere, cosciente e matura, richiedeva una serie di storie, di esperienze, di riflessioni accumulate e interpretate attraverso un’ottica mobile e capace di cogliere la continuità.
Richiede anche delle modalità di raccontare storie che rendano il narrato accettabile, a sé e agli altri.
Facciamo un esempio. L’identità professionale oggi è in continuo mutamento in quanto, come abbiamo visto, occorre parlare di lavori anziché di lavoro.
Dal momento in cui io potevo mantenere la stessa occupazione per tutta la vita lavorativa davo delle interpretazioni ricorrenti di quel mio essere e di quel mio fare e, in questo modo, contribuivo alla creazione della mia identità professionale. Per esempio potevo essere scontento del mio lavoro ed il semplice fatto di fissare quell’idea contribuiva a definire la personale visione della mia attività.
Se, in più, anche socialmente era riconosciuta al mio lavoro una posizione non di prestigio potevo parlarne accentuando la mancanza di orgoglio.
Insieme contribuivano a formare la complessità della mia identità professionale.
Accostando queste due situazioni possiamo chiaramente vedere come tra il narrare ed il vivere esista una relazione di reciproca attivazione.
Tale modalità può essere allargata alla visione del mondo e, più in generale, alla percezione di sé tenendo ben presente come oggi il compito interpretativo divenga ben più complesso.
VIVERE ALLA GIORNATA
Proviamo a farci caso. Se prima potevamo parlare di “pianificazione” adesso dobbiamo parlare di “improvvisazione”, c’è una tendenza al vivere alla giornata in quanto passato e futuro rischiano di essere intralci.
Il primo mi potrebbe portare verso il rimpianto di quello che fù, all’immobilità, il secondo è spesso visto come qualcosa da cui difendersi, una minaccia.
Per poter affrontare tale situazione c’è bisogno di un’identità agile, pronta al cambiamento e non di un gigante.
Non ci sono più grandi porte da passare, e quando ci sono portano in luoghi ingorgati e troppo noti, ma piccole e fitte porte che possono portare in ogni luogo.
Questo va fatto senza perdersi, bisogna cominciare a pensare al bicchiere come qualcosa che è contemporaneamente mezzo pieno e mezzo vuoto, bisogna pensare al paradosso dove riesco a cambiare e a rimanere me stesso come un qualcosa di normale.
TRA VERO E VEROSIMILE
C’è un vincolo stretto e inscindibile tra l’esperienza vera e l’esperienza narrata in quanto raccontare la mia vita non vuol dire ricalcarla perfettamente ma ricostruirla lungo quel filo ideale che mi permette di dare senso a chi sono, di accostarmi alla realtà vissuta ed a una costruzione di me immerso in una storia sociale.
Raccontarmi non è un’esperienza personale e privata ma una costruzione personale della realtà sociale, l’espressione palese del mio bisogno di essere ascoltato.
E i diari segreti? Quelli dove racconto quelle storie che sono soltanto le mie e che nessun altro leggerà mai?
Quelle storie verranno rilette da me nel futuro, anche un minuto dopo, quando tutta una serie di esperienze e pensieri mi avranno cambiato.
È un’altra persona quella che le riscorre, un poeta diceva “…io sono un altro…”, è lo sconosciuto che sarò che rileggerà e rifletterà su quelle righe.